Don Malosto: «La povertà è l’unico modo che ho per capire che non sono fatto per farcela da solo»

Messa e cena di Natale di Caritas Diocesana Veronese nella sede del Centro di pastorale adolescenti e giovani della diocesi scaligera. Il direttore don Matteo Malosto ha voluto incontrare nel luogo in cui vive, in casa sua, i volontari dei territori, dei progetti e delle strutture Caritas e gli operatori che vi lavorano, per il tradizionale scambio di auguri in occasione del Natale. Ecco alcune delle sue parole: «Sono fortunato ad avere al mio fianco così tante persone che amano il prossimo. Ma ci chiediamo mai che cos’è l’amore? Noi teniamo un crocifisso nelle chiese per ricordarci che cosa significa amare qualcuno. A me affascina tantissimo quello che Gesù dice dell’amore. Lui lo dice con le parole, ma poi con la vita stessa, con il dono di se stesso. Quindi un modo molto concreto di amare è provare a non mettere sè stessi al centro della vita, ma provare a mettere gli altri al centro della propria vita, prendendoci cura della felicità di qualcun altro. Questo è l’amore. Ed è la cosa più bella che possiamo fare sulla terra: è ciò che più ci contraddistingue e ci caratterizza. Provate a pensare a tutti i gesti che quotidianamente fate, spesso nel nascondimento e nel silenzio. Dal dare la spesa in un Emporio a chi non conoscete, ai sorrisi che elargite alle persone che incontrate, all’essere una presenza o un sorriso per chi è in fila davanti alla Questura… E così via. Potrei fare tantissimi esempi. Noi in Caritas siamo segni concreti di questo amore: perché diventiamo felici prendendoci cura della felicità di qualcun altro.

L’altra cosa che ci contraddistingue è l’essere Chiesa insieme, l’essere comunità, essere comunità tra di noi. Tutti facciamo parte della Chiesa, di questa Chiesa tanto ammaccata, che a volte può anche farci arrabbiare. Guardate Gesù all’ultima cena. Aveva davanti dodici persone: uno lo tradiva, tutti gli altri lo avrebbero lasciato solo. Sapeva che la Chiesa è fatta così. Che è tanto precaria. Però lui l’ha detto tante volte: che non è venuto per i sani, ma per gli ammalati. Anche noi in questa Chiesa dobbiamo provare a sentirci a casa e a fare, come diceva Madre Teresa, la nostra parte per provare a rendere il suo volto luminoso. La Chiesa siete voi, siamo noi.

È bellissimo servire per amare ed è bellissimo far parte di un popolo che è segnato da tanto limite, da tanto peccato, però in questo popolo mi sento a casa perché anch’io sono segnato dal limite e dal peccato.

Mi interrogo spesso anche io di come posso amare veramente. E mi sono risposto che una delle strade per farcela, forse la più vera, è quella di scoprirmi povero. Bisognoso degli altri. E di rompere le logiche che spesso la società ci racconta, di riuscirci da solo. Da solo è impossibile. Scoprirmi povero, andare incontro alla mia povertà. In modo che sia un punto di partenza per imparare ad amare, perché solo un povero sa di aver bisogno degli altri e può fare esperienza di essere amato. Quindi solo un povero può fare l’esperienza di amare, di amare profondamente.  Io quando parlerò in Caritas dei poveri, non parlerò mai delle persone che serviamo, ma parlerò prima di tutto di noi. Parlerò di noi e poi parlerò di loro. Tutti insieme. Perché sto scoprendo che la povertà è l’unico modo che ho per capire che non sono fatto per farcela da solo.

Ci tengo a questa parola: poveri. Quando diciamo questa parola, diciamola con l’entusiasmo di Gesù che dice: Beati i poveri in spirito. Beati non quelli che sono poveri in concreto, ma beati quelli che si scoprono dentro poveri, perché l’unico modo che abbiamo di voler bene agli altri, è di permettere loro di sederci accanto a noi, di volerci bene, di amarci, di togliere le maschere, di togliere tutta la perfezione che vogliamo mostrare che non abbiamo e di saperci amati così come siamo».