Il vescovo incontra i volontari di Caritas: «Siete semi di speranza!»
Si sono ritrovati a Quaderni di Villafranca i volontari di Caritas diocesana veronese, intorno al loro pastore, il vescovo Domenico Pompili. Quaderni è una comunità che accoglie dal 2020 persone richiedenti asilo: oggi sono presenti dei giovani afghani, arrivati tramite un corridoio umanitario di Caritas italiana e gestiti dagli operatori di Caritas Verona, in collaborazione con la comunità parrocchiale.
Questo, come tanti altri, è uno dei frutti nati dalla solidarietà delle parrocchie, dei volontari che hanno deciso di dedicarsi al prossimo e di mettere in pratica le parole del Vangelo.
Queste alcune parole di mons. Domenico Pompili: «Gesù nelle sue parabole ci fa sempre comprendere una cosa fondamentale. E cioè che la speranza, che oggi è merce rara e spesso sopraffatta dalla sfiducia, nasce dove siamo capaci di riappropriarci della semplicità e della piccolezza delle piccole cose. Questo è il nostro potere di trasformare la realtà. E oggi noi tutti avvertiamo come necessaria la presenza di questa speranza che è il motore dei volontari di Caritas. Le cose di Dio, quasi impercettibili, messe in rapporto alle grandi questioni sociali, politiche ed economiche del mondo, a volte sembrano insignificanti. Ma in realtà sono come il lievito che lentamente fa fermentare tutta la pasta con un processo inarrestabile che lascia stupefatti per la sua forza. Forte di questa speranza, ognuno di noi sa investire nella piccolezza e nella semplicità delle cose alla sua portata. Un esempio? Sembra un piccolo gesto quello della parrocchia di Quaderni, cioè di accogliere un gruppo di giovani che provengono da molto lontano e che rimarranno qui per un periodo di tempo. E invece questo modo di dire qualcosa all’apparenza impercettibile, in realtà è destinato a diventare una grande realtà. E questo ci esonera dal calcolare gli effetti della nostra azione, scoraggiandoci o meno rispetto ai risultati ottenuti. Purtroppo, questa fretta di risultato è un male della nostra società: oggi si ritiene che dopo aver seminato, si possa andare immediatamente a raccogliere. La digitalizzazione ci ha fatto perdere il buon senso del contadino, che sa benissimo quali sono i tempi, perfino dei fiori e dei frutti. Invece la società d’oggi ci insegna che le cose possono essere tutte velocizzate, perché così funzionano meglio, e ciò ci trae in inganno perché possiamo pensare che anche le persone siano “cose che funzionano”. Ma le persone non funzionano, le persone esistono. È per questo motivo, che a ciascuno di noi è chiesto di fare responsabilmente la sua parte, confidando nel seme che, come dice Gesù, “produce spontaneamente prima lo stelo, poi la spiga, poi il chicco pieno nella spiga”. Il bene, insomma, ha una sua forza intrinseca che, una volta seminato, che noi ce ne accorgiamo o meno, porta irresistibilmente il suo frutto. La stessa vita di Gesù è come un seme, che una volta piantato sulla terra, porta frutto. All’apparenza quello di Gesù sembra un insuccesso, perché poi viene condotto alla croce, eppure in questo inizio umile si nasconde un’enorme potenzialità. E anche noi dobbiamo ritrovare questa visione: dobbiamo aprire processi e non occupare spazi di potere. Essere un po’ “visionari”, cioè persone che non si lasciano sedurre semplicemente dai dati di fatto, ma sanno andare oltre. Un po’ come quando guardiamo i bambini: non si ferma tutto lì in quel momento. Ma educandoli ogni giorno, anche alla fede, facciamo qualcosa di grandissimo, che non si percepisce nell’immediato e che sembra inutile oltre che impossibile. Dio non pianta alberi, ma getta semi. E così noi: non dobbiamo piantare alberi, occupare spazi, ma dobbiamo aprire processi. Il seme è in qualche modo la strada che ci porta all’albero. Lo aveva forse compreso il pittore Van Gogh in una sua celebre tela intitolata “Il seminatore al tramonto”: in quest’opera Van Gogh realizza uno scambio cromatico tra cielo e terra, con il cielo tinto di un giallo carico ed il campo striato di venature azzurre, blu e viola. E questo per dire cosa? Per dire che nella monotona ripetitività di ogni nostro giorno presente, forse anche l’accoglienza dei più piccoli o dei più lontani, ci permette, magari senza accorgercene, di seminare e di costruire il futuro».
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